REPORT 2023

Leggere la nuova complessità. Gli effetti del digitale sulle strategie dell’industria italiana dei quotidiani

Lelio Simi

Giornalista, consulente progetto “Osservatorio sul giornalismo digitale”

SOMMARIO DEL CAPITOLO

Introduzione

Quali sono oggi le metriche migliori, i dati più significativi, i numeri più importanti da utilizzare per “leggere”, nel modo più corretto e utile per tutti, un’industria come quella dei quotidiani? Non è una domanda alla quale è semplice rispondere perché negli ultimi tre lustri tutto è cambiato, dai modelli di business che reggono le imprese editoriali fino ai canali di distribuzione attraverso i quali un articolo, un reportage o una semplice notizia raggiungono i lettori.

È cambiato soprattutto il prodotto al centro di questa industria, il giornale, che da almeno un paio di decenni, oltre alla sua versione di carta — il formato “monoblocco” che conosciamo da oltre un secolo — è diventato molte più “cose”. In questo contesto bisogna prendere atto che tutto è tremendamente più complicato; ad esempio: se in passato di un quotidiano il numero complessivo dei suoi lettori — ancor più delle copie vendute in un sistema che si reggeva principalmente sui ricavi pubblicitari — diceva, se non tutto, quasi tutto di quanto e come quel quotidiano “funzionasse” economicamente e non, oggi non è più così. In questo senso la questione di quali metriche utilizzare, della “qualità” dei dati da avere a disposizione, è diventata ancora più fondamentale in uno scenario che non semplicemente è cambiato, ma che muta continuamente sulla spinta di innovazioni tecnologiche che generano nuove dinamiche di mercato, nuovi approcci del pubblico al consumo di notizie.

Commetteremmo quindi un grave errore nel continuare a cercare imperterriti, nell’attuale infosfera, il corrispettivo di un numero molto limitato di metriche dell’era analogica meramente “quantitative” trascurando, o addirittura ignorando, quelle “qualitative”. E questo, soprattutto in un sistema industriale come quello dell’editoria legata alle notizie, oggi costretto a non reggersi più principalmente sui ricavi da pubblicità e con la cosiddetta subscription economy — l’economia degli abbonamenti digitali — adottata come strategia dominante che sta trasformando anche la stragrande parte dei quotidiani in “giardini recintati”, ovvero piattaforme online accessibili ai soli abbonati paganti. Abbiamo insomma assoluto bisogno di definire nuove metriche, imparare ad usarle correttamente.

È sotto questa luce che abbiamo cercato di collocare, all’interno delle attuali dinamiche complesse, le metriche disponibili seppure nella maggior parte dei casi, ancora “pensate” e raccolte dalle società che le certificano dentro “silos” separati uno dall’altro. Il tutto — attraverso l’analisi di alcuni dei principali dati sia economici che sulle audience dei quotidiani italiani —con la finalità che il presente report riesca a dare degli strumenti utili a comprendere il reale impatto che la nuova complessità ha avuto su questo sistema industriale in Italia negli ultimi dieci anni; quali effetti concreti, il profondo cambio degli scenari, ha avuto sulle strategie editoriali? Quali dinamiche di mercato sono emerse e quali si stanno delineando? Quali effetti potrebbero avere, nell’immediato futuro, su un sistema industriale già messo a dura prova? Un primo passo per interrogarsi su quali strumenti ancora servono e devono essere sviluppati, per leggere e comprendere questa complessità all’interno di una filiera, come quella delle notizie, dove le diverse figure professionali oggi più che in passato, devono interrogarsi su come operare al meglio mentre i nuovi contesti economici, sociali e culturali innescati dalle innovazioni tecnologiche stanno modificando, per sempre e in modo profondo, il loro ruolo.

 

Conclusioni

Internet ha conquistato un ruolo dominante nelle industrie dei media in virtù della sua promessa che tutto, dentro il suo ecosistema, fosse altamente misurabile nel minimo dettaglio. Eppure presto ci siamo dovuti rendere conto che quella promessa non si basava su un principio paritario. Google, Facebook e le altre big tech — i grandi disruptor delle industrie dei media, compresa quella dei quotidiani (e quella della pubblicità, alla quale per gli editori deriva una parte consistente dei loro ricavi)— non si sono affidate, come normalmente tutte le altre aziende di questo comparto, a società terze per certificare i loro dati, ma li hanno forniti al mercato nelle modalità e nelle forme che di volta in volta meglio preferivano.

Come è stato fatto notare c’è un paradosso nel mondo digitale: il dato è sacro ma nessuno conosce davvero su cosa si basano le metriche applicate per determinarlo. Certo è vero che anche da noi in Italia le società preposte a certificare le audience dei vari media raccontano tutte una storia, anche recente, non proprio felice, con significative “distrazioni”, mancati accordi e fallimenti, dove la totale affidabilità del dato richiesta oggi a gran voce è sempre stata più volte messa in discussione. Le nuove piattaforme però sembrano riuscire a moltiplicare per dieci (se non per cento) molti dei vecchi problemi, oltre a proporne di sempre nuovi.

Non dovrebbe però esserci più bisogno di ricordare che frasi del tipo “i giornali non li legge più nessuno”, che sentiamo e leggiamo ancora in abbondanza in mille contesti diversi, non sono vere se consideriamo che un “giornale” da anni ormai è la sua versione di carta quanto quella digitale (il suo sito web, la sua app in uno smartphone). Nel 1990, anno che rappresenta il picco delle vendite di quotidiani in Italia, il Corriere della Sera, per esempio, aveva in media una base di circa 2,8 milioni di lettori al giorno (a fronte delle 660 mila copie medie vendute). Oggi, certo, le vendite delle copie di carta sono precipitate, ma contemporaneamente internet ha dato la possibilità di accedere a nuovi lettori: nel 2022, a fronte di 1,29 milioni di lettori nel giorno medio della sua copia di carta (fonte Audipress 2° ciclo aggiornamenti realizzato nel periodo aprile/luglio), il Corriere raggiunge in media 3,5 milioni di persone tramite il suo sito e le sue app (fonte Audiweb, novembre 2022).

Certo, i dati dei lettori del giornale di carta e quelli del sito web dello stesso giornale non possono essere sommati, visto che una parte di loro sono, verosimilmente, lettori sia di una versione sia dell’altra. Inoltre, le rilevazioni di Audipress e Audiweb differiscono per metodologia e riferimenti. Tuttavia, possiamo però dire due cose: la prima è che il Corriere, nelle sue diverse versioni, non viene letto da meno persone rispetto agli anni Novanta del secolo scorso; la seconda è che in questo contesto non sappiamo esattamente quanti sono davvero i suoi lettori, perché manca una misurazione uniforme che sappia integrare le varie “piattaforme”.

Un fatto che, per tutte le considerazioni fatte, non è più davvero utile per dare un quadro realistico delle audience dei giornali nell’attuale contesto di mercato.

Fortunatamente questa è una conclusione alla quale, da noi in Italia, è giunto anche il Garante per le comunicazioni che ha dettato nuove linee guida consapevole che “I canali di comunicazione non coincidono più esclusivamente con i media tradizionalmente intesi — a cui corrispondono attualmente le singole società di rilevazione — e assumono sempre di più il ruolo di ‘aggregatori di contenuti multimediali’ (video, audio e testi)”[1] e chiedendo così in questo modo metriche: “univoche e condivise in grado di fornire informazioni circa il coinvolgimento del consumatore rispetto ai contenuti e alla pubblicità diffusa sulle diverse piattaforme di comunicazione, in un ambiente di rilevazione convergente”. Indicazioni che hanno dato, finalmente, il via alla fusione tra Audipress e Audiweb ad inizio del 2023[2].

È un primo passo importante, al quale però serve dare una sempre maggiore e solida “cultura” dei dati per attribuire il giusto peso ai diversi contesti, alle diverse modalità di lettura e accesso alle notizie.

Il digitale anche nel mondo dei giornali ha contribuito in maniera significativa ad elevare all’ennesima potenza l’ossessione per la perfomance: hanno fatto scuola i grandi schermi luminosi con i dati dei contatti totalizzati trasmessi in tempo reale, che siti “all digital” americani come BuzzFeed o Vice Media, espongono con orgoglio all’ingresso delle loro sedi. Una cultura della performance che, però, va detto si è troppo spesso rivelata fine a sé stessa, incapace di dirci veramente cosa significassero (economicamente, ma non solo) i millemila clic totalizzati da un articolo oppure i fantamilioni di follower raggiunti dall’account ufficiale di una testata su Facebook o Twitter. Quanto davvero questi elementi contribuiscono a realizzare modelli di business sostenibili, quanto a migliorare la qualità del giornalismo realizzato. Eppure è innegabile che il digitale ha dato la possibilità di capire, molto meglio che in passato, il reale coinvolgimento del lettore, ha dato strumenti capaci rendere concretamente partecipi le persone nel sostenere (non solo economicamente) un progetto editoriale.

Serve allora sottolineare che, oggi più che mai, trovare dati e metriche utili — di “qualità” — per comprendere la complessità dei media non è solo una necessità per il mercato pubblicitario, non serve soltanto a capire la “vendibilità” di un nuovo format editoriale o quanto sia giusto pagare uno spazio pubblicitario, vuol dire comprendere meglio una parte fondamentale di ciò che avviene nella nostra società, in una misura enormemente superiore di quanto potessero dirci le vecchie metriche delle audience come le abbiamo conosciute fino a ieri. Serve, alla fine, nel dotarsi di strumenti e strategie per comprendere quanto le dinamiche in atto siano utili o meno a un’informazione di qualità e a un rapporto proficuo con il lettore.

2010-2022: un’industria in (faticosa) trasformazione

Il terribile anno pandemico nella sua drammatica peculiarità ha aperto un decennio — gli anni Venti — elevando all’ennesima potenza molti dei punti critici di un’industria come quella dei quotidiani che, negli anni immediatamente precedenti, aveva subito alcuni dei cambiamenti più radicali della sua storia. Gli anni Dieci del Duemila — sotto l’effetto dell’onda lunga della diffusione capillare degli smartphone e del mobile (il lancio dell’iPhone è del 2007) così come della Grande Recessione degli anni 2008-2009 — sono stati caratterizzati da una straordinaria accelerazione di cambiamenti già in atto, sia a livello tecnologico che culturale, sociale ed economico. Cambiamenti che obbligano continuamente tutta una filiera (editori, giornalisti, distributori ed edicole) a ripensare al loro ruolo e al loro modello di business (senza peraltro, trovare risposte certe o confortanti). È sotto questa luce che, comunque, vanno lette le dinamiche di questi ultimi due anni; il 2021 e il 2022, sono la risultante di uno scenario del tutto nuovo e continuamente in cambiamento dove si sommano più “effetto domino” innescati negli anni precedenti.

Un primo quadro di questi cambiamenti risulta evidente confrontando alcuni macro-dati di contesto relativi alle diverse audience del complesso delle testate quotidiane italiane: nel 2010 i lettori di quotidiani in Italia (Figure 5,6,7) (secondo Audipress) nella loro versione cartacea o della replica digitale erano, nel giorno medio, circa 24 milioni, il 46% della popolazione, nel 2019 a chiusura del decennio, erano 15,8 milioni (il 29,7% della popolazione); nel 2022 (il riferimento è il secondo aggiornamento annuale di Audipress) si sono ulteriormente ridotti a 11,6 milioni (21,8% della popolazione) seppure in leggera crescita dopo il punto più basso toccato nel 2021.

Questo mentre la platea degli italiani su internet nel giorno medio (secondo rilevazioni Audiweb) è passata dai 12 milioni di utenti (età compresa tra i 2 e i 74 anni) di febbraio 2010 ai 36,7 milioni di novembre 2022 mentre, nello stesso periodo, il tempo medio speso per persona è passato da 1 ora e 30 minuti a 2 ore e 42 minuti. Quindi nel medesimo periodo di tempo[3] — l’inizio degli anni Dieci e i primi due anni degli anni Venti — mentre la platea dei lettori di un quotidiano cartaceo in Italia diventava meno della metà, quella degli utenti di internet non solo triplicava di numero ma cresceva, di quasi il doppio, anche per tempo medio speso nelle Rete.

Le contraddizioni del sistema industriale dei quotidiani emerse nell’anno della pandemia

Il 2020 ha poi reso ancora più evidenti alcune contraddizioni di tutta l’industria dei quotidiani a cominciare dal fatto che un macroscopico aumento dell’attenzione sui siti di news non abbia affatto generato un reale vantaggio economico: sono emblematiche le immagini dei grandi spazi vuoti al posto di banner pubblicitari in molte grandi testate online, proprio quando queste vedevano uno dei loro picchi “storici” nelle pagine viste.

Il mercato delle pubblicità digitali già dominato anche in Italia dalle big tech che lasciano a tutti gli altri nient’altro che le briciole, è stato ulteriormente reso complesso e difficile da monetizzare per gli editori dall’incremento dell’uso da parte dei grandi investitori pubblicitari delle cosiddette black list, una tattica utilizzata ormai da tempo per impedire, ad esempio, che la pubblicità di un’agenzia di viaggi appaia accanto alla notizia di un incidente aereo e che in questi ultimi anni dominati da hate speech hanno portato, per eccesso di precauzione, i grandi brand ad includere migliaia di termini nelle loro “liste nere” pubblicitarie (nel periodo della pandemia, secondo Integral Ad Science, una delle principali società specializzate nell’analisi della pubblicità digitale, le black list hanno bloccato sui siti web la visualizzazione di oltre 1,3 miliardi di annunci pubblicitari).

Ma questa è stata solo la punta di un iceberg. La pubblicità digitale ha conquistato in poco più di un decennio un’intera industria come quella della pubblicità, le big tech hanno ribaltato le vecchie gerarchie grazie ad economie di scala basate su una “coda lunga” (potenzialmente) infinita, in modo da poter moltiplicare su grande scala i bassi margini di guadagno del digitale.

A livello globale la fetta che i quotidiani riuscivano ad intercettare sull’intero ammontare degli investimenti pubblicitari nel 2014 era ancora del 14% (compresi anche i loro ricavi da digitale, non solo quelli derivati dal cartaceo), nel 2022 — secondo stime di GroupM[4] il centro media più grande al mondo — questo dato si è ridotto a un misero 4% (per dare un’idea, questa è una quota sui ricavi totali di tutti i mezzi pari a quella dell’Outdoor) e per i prossimi anni le previsioni sono di un ulteriore ridimensionamento.

In Italia la pubblicità sui quotidiani, nella loro versione di carta, si è più che dimezzata tra 2010 e 2020 passando da 1,25 miliardi a 427 milioni di euro una flessione del 66%, una perdita dei ricavi pubblicitari, non tenendo conto dell’inflazione, superiore agli 800 milioni di euro complessivamente.

Un dato che racconta molto del declino di questa fondamentale voce economica sulla stampa quotidiana in Italia, lo troviamo però guardando nel dettaglio i dati forniti da FCP (la Federazione delle concessionarie pubblicitarie), in particolare quelli riferiti ai ricavi e al relativo volume di spazi venduti della “commerciale nazionale”, il formato principale che da solo vale circa la metà dei ricavi di tutta la pubblicità su carta dei quotidiani.

infatti, se i fatturati tra 2010 e 2020 flettono del 68% la vendita di spazi cala, nel medesimo periodo, “soltanto” del 33%. Una flessione quindi a due velocità distinte — la prima più del doppio dell’altra (Figura 9) — che ci dice abbastanza chiaramente della svalutazione dei margini di guadagno per singolo modulo. Il fatturato medio per singolo spazio che, nel 2010, per la “commerciale nazionale” era di circa 6.200 euro, già nel 2018 vede più che dimezzarsi il suo valore a circa 3.000 euro e, su questa cifra — senza variazioni significative — si è mantenuto fino ad oggi (per la precisione nel 2022 è stato di 3.084 euro).

In questa situazione da qualche anno ormai — su modello di grandi testate internazionali come il Guardian, il New York Times e il Washington Post — anche in Italia gli editori hanno, in parte, cercato di trasformare le loro concessionarie pubblicitarie in vere e proprie agenzie (o cosiddetti Brand content studio) che offrono agli investitori pubblicitari servizi ad ampio raggio, un modo per diversificare questo tipo di ricavi e non dipendere più, come in passato, soltanto dalla vendita di spazi pubblicitari all’interno delle proprie testate[5].

Questo però ha messo in evidenza problematiche etiche, e di rapporto di trasparenza con il lettore non di poco conto, su come tenere in piedi il muro sempre più sottile tra la parte giornalistica e quella di marketing e pubblicitaria all’interno dei quotidiani.

I quotidiani nella nuova economia dell’attenzione: un difficile gioco di equilibri

Dall’altra parte le strategie che mirano a far crescere i ricavi che derivano direttamente dai lettori, pur avendo molti punti di forza, hanno mostrato anche diverse criticità e nodi ancora tutti da sciogliere. È bene ricordare che il nuovo mercato degli abbonamenti digitali che si ispira a un modello “alla Netflix” si basa non tanto sull’abbonamento come lo abbiamo concepito fino a ieri, ma nel trasformare un lettore (più o meno) occasionale in un utente di un servizio fornito 24 ore su 24 sette giorni su sette da rinnovare mese dopo mese. Il risultato è che anche i quotidiani, in questa nuova economia dell’attenzione, sono ormai all’interno di un ecosistema che non li mette in concorrenza soltanto tra di loro, ma con tutta una serie di altri soggetti: dagli streamer video a quelli audio, o della lettura e dell’intrattenimento nella sua accezione più ampia (newsletter indipendenti, creator, o piattaforme come Amazon Kindle unlimited).

Tutti soggetti subscription-first a caccia di due beni inevitabilmente limitati: l’attenzione delle persone e la loro disponibilità economica. È lecito chiedersi, con non poca preoccupazione, se dovendo fare dei tagli per non sforare il budget familiare in quanti rinunceranno ad abbonarsi a Netflix o Spotify (o a Disney plus, o a Amazon Prime) per mantenere l’abbonamento a un quotidiano nazionale o a quello locale? Il rischio è che, in questo scenario, i giornali facciano la parte del vaso di coccio tra i vasi di ferro.

Anche perché il modello Netflix (se davvero questo può rappresentare un modello per gli editori di notizie) ha alla sua base grandi investimenti (cifre vicine al 10% dei ricavi lordi) in tecnologia per il miglioramento continuo del prodotto digitale.

Algoritmi di raccomandazione, raccolta e analisi dei dati all’interno dei propri siti, sono strumenti essenziali per convertire i semplici visitatori occasionali dei siti in abbonati e poi convincerli, mese dopo mese, a non disdire. In questo senso l’idea che il digitale per gli editori sia uno strumento da utilizzare soprattutto per contenere i costi (perché elimina o riduce drasticamente quelli per la stampa e la distribuzione “fisica”) può essere quantomeno fuorviante se si vogliono ottenere risultati economici concreti.
In questi scenari allora appare chiaro che editori, giornalisti e tutta un’intera filiera delle notizie legata ai quotidiani si trova di fronte a un difficile e complesso gioco di equilibri. Da una parte la necessità di non accelerare l’inevitabile declino dei ricavi derivati dalla carta — che rappresentano ancora la parte più consistente dei fatturati nella stragrande parte dei casi, soprattutto in Italia— utilizzando una parte di questi per investire risorse e affinare le armi competitive dentro i nuovi scenari di mercato su digitale. Dall’altra c’è da tenere conto che le strategie su digitale — le conversioni da un modello economico basato su carta ed edicole, a uno basato su digitale e abbonamenti— hanno bisogno di tempo: un gigante come il New York Times che nel 2011 ha deciso di investire grandi risorse nelle nuove tecnologie, ha impiegato oltre dieci anni per giungere al punto nel quale i ricavi da digitale pesassero quanto quelli derivati dalla carta (e poi, come accaduto in questi ultimi due anni, li superassero).

E c’è da considerare comunque che il Times York Times è un modello oggettivamente molto difficile da replicare in altri contesti editoriali.

Oggi appare evidente dall’analisi dei dati di vendita di ADS che, in Italia, siamo ancora nella fase nella quale si punta a far crescere il più possibile, tramite abbonamenti digitali offerti a prezzi estremamente economici, la platea di lettori digitali all’ingresso di un percorso di conversione che prevede di portare, nei prossimi anni, una frazione di loro verso abbonamenti “premium” a prezzi più elevati.

Se guardiamo infatti le copie digitali vendute dal totale delle testate quotidiane italiane (il riferimento è sempre quello dei quotidiani censiti da ADS relativamente alle “vendite individuali”) come indice degli abbonamenti digitali — visto che queste rarissimamente vengono vendute singolarmente ma, perlopiù, in pacchetti di abbonamento — vediamo come il peso sul totale del venduto di questo formato sia passato dal 5% al 21% tra 2013 (primo anno nel quale vengono certificate da ADS) e il 2022. 

È inoltre interessante notare come le copie digitali vendute a prezzi decisamente economici — appena tra il 10 e il 30% del prezzo intero— siano in pochi anni più che raddoppiate: da 61mila a 142mila unità nel giorno medio tra il 2019 e il 2022, mentre quelle vendute al 30% o più del prezzo di copertina nel medesimo periodo sono rimaste sostanzialmente invariate. Tanto che l’incremento di copie digitali (+61%) vendute dall’aggregato di tutti i quotidiani italiani censiti da ADS è per quasi la totalità (il 98%) dovuto proprio all’aumento delle copie digitali vendute a prezzi scontatissimi.

Da notare ancora, per completare questo quadro, che il 45% del totale delle vendite di copie digitali vendute ad almeno il 30% del prezzo intero, e ben il 70% di quelle vendute tra il 10 e il 30%, è concentrato solamente su tre testate nazionali: Corriere della Sera, Repubblica e Sole 24 Ore.

Nel 2022 soltanto in due testate la “quota digitale” supera il 50% del totale delle copie vendute “individualmente”: Il Sole (61%) e Il Fatto Quotidiano (52%), il Sole però ha una quota del 36% in quelle vendute tra 10 e 30% del prezzo intero mentre il Fatto solo il 9%. Immediatamente al di sotto del 50% troviamo altre tre testate nazionali: Il Manifesto, Il Corriere della Sera e Repubblica con quote digitali sul venduto tra il 34 e il 44%; circa metà delle 60 testate quotidiane censite da ADS è invece al di sotto del 10%.

Dati questi che in qualche modo ci dicono che le strategie editoriali che mirano a monetizzare direttamente la vasta platea di lettori di Internet, vista la difficoltà oggettiva di farlo indirettamente con la pubblicità digitale, vengono perseguite in Italia da una manciata di testate nazionali, peraltro ancora nella fase iniziale di questo percorso. Ovvero quello nel quale si mira a fare “massa critica” a basso profitto economico ancora lontano quindi da dare risultati economicamente apprezzabili.

Tuttavia è bene ricordare che rispetto ad altri Paesi (Francia, Stati Uniti, Regno Unito) dove da sempre — ben prima dell’avvento del digitale — la quota dei quotidiani venduti per abbonamento è sempre stata elevata, in Italia per varie ragioni, si è sempre preferito affidarsi alla capillare rete delle edicole (oggi, come sappiamo, sempre meno diffusa sul territorio), ne risulta che trasferire una “cultura” dell’abbonamento dal cartaceo al digitale è, oggettivamente, per i nostre imprese editoriali molto più difficile che in altre realtà. Un dato esplicativo in questo senso: nel 2022 sono stati 40 i quotidiani (due terzi del totale di quelli censiti da ADS) nei quali le copie cartacee vendute in abbonamento hanno un peso davvero risibile: compreso appena tra lo 0 e il 3%, sul totale del venduto sia cartaceo che digitale.
Se guardiamo invece più in generale alla concentrazione di mercato degli editori, avendo come riferimento le copie vendute (quelle che consideriamo sono sempre le “vendite individuali”), vediamo che RCS Media (Corriere della Sera e Gazzetta dello Sport) e GEDI (Repubblica, La Stampa e tutte le testate locali) nel 2022 detengono una quota, praticamente identica, del 20%. Sono seguiti a distanza da Caltagirone (Corriere Adriatico, Il Mattino, Il Messaggero, Il Gazzettino, Nuovo Quotidiano di Puglia) e Monrif (Resto del Carlino, Nazione e Il Giorno) con rispettivamente 11% e 8% seguiti da Gruppo 24 Ore[6] al 6% e SAE (Il Tirreno, Le Gazzette di Modena e Reggio e La Nuova Sardegna acquisita proprio nel 2022) al 4%.

È interessante guardare però nel dettaglio come cambiano gli “equilibri” nelle singole voci che compongono il totale delle vendite individuali: se nel canale edicola[7] questi non cambiano di molto (visto comunque il grande peso che ha questo canale di vendita), gli scenari mutano, anche di molto, in altre voci di vendita che, se anche marginali, ci dicono qualcosa sulle strategie in atto.

Ad esempio lo scenario cambia completamente se guardiamo le vendite di copie cartacee per abbonamento con RCS e GEDI che sommano una quota di appena il 10% grazie soprattutto agli abbonamenti delle testate locali di GEDI (la quota dei due principali editori italiani nella “vendite individuali totali” era del 40%).
Lo scenario si ribalta nuovamente se guardiamo le copie digitali con i due maggiori gruppi italiani che tornano a quote di maggioranza relativa (45%) in quelle vendute ad almeno il 30% del prezzo intero e di maggioranza assoluta (56%) in quelle vendute a prezzi ancora più bassi.Se prendiamo come riferimento i dati sulle vendite per abbonamento (sia cartacei che digitali) come indice di una “fidelizzazione” del lettore, constatiamo come le grandi testate nazionali che li hanno trascurati in passato (ad eccezione delle testate, come il Sole 24 Ore, che hanno come principale riferimento comunità professionali) oggi cerchino di recuperare terreno sul digitale con abbonamenti a prezzi decisamente economici. Dall’altra parte, le testate a diffusione locale che hanno, generalmente, un migliore livello di vendite per abbonamenti nel cartaceo (segno di un buon legame con le comunità di riferimento) hanno difficoltà nel trasferirli su digitale.

Il problema del costo della carta e del suo “spreco”

Nel 2022, un evento drammatico di scala globale come l’invasione della Russia in Ucraina — come accaduto due anni prima nell’anno della pandemia da Covid-19 — ha messo in evidenza alcuni punti di estrema fragilità del sistema industriale dei quotidiani. In particolare, l’aumento dei prezzi dell’energia e i problemi delle catene di approvvigionamento globali hanno fatto lievitare i costi della carta, peraltro già in aumento da parecchi anni. Con livelli al limite della sostenibilità del prezzo e della reperibilità della carta, le molte inefficienze del sistema distributivo dei quotidiani, che in Italia si trascinano da decenni, sono state rese ancora più evidenti.

Le copie rese sono, come sappiamo, un indice fondamentale per capire lo stato di salute della “macchina” distributiva di un giornale, tenuto conto che una quota di “scarto” è inevitabile, in Italia in questi ultimi anni la quota del reso è però continuata ad aumentare. I problemi sono molti, giusto per citarne alcuni: la rete delle edicole che si sta sgretolando, con i diversi soggetti — edicolanti, distributori e editori — che si sono trovati, spesso in questi anni, in aperto contrasto, una abitudine come già sottolineato molto limitata nell’uso dell’abbonamento anche perché, tra le varie cose, la rete di posta nazionale non garantisce un servizio adeguato e puntuale.

Nel 2022 le copie rese, prendendo in considerazione i 60 quotidiani censiti da ADS, sono state (per i 359 giorni di uscita durante tutto l’anno) 860 mila in media ogni giorno, per un peso del 38% sul totale della tiratura, il volume annuo complessivo è così stato di 308 milioni di copie rese.

Per avere una prima stima di quanto questo pesi economicamente al sistema economico dei quotidiani, possiamo considerare che il costo della carta su un quotidiano è stimabile, come riporta il quotidiano digitale Il Post[8] avvertendo che ci sono molte variabili da considerare, tra i 30 e i 60 centesimi per copia.

Seppure il numero di copie rese sia diminuito costantemente in valori assoluti in questi anni — come logica conseguenza della notevole flessione dei volumi di copie stampate e vendute — quello che deve allarmare seriamente è il fatto che la quota parte della resa sulla tiratura è, invece, costantemente aumentata.

Infatti se nel 2010 era del 27%, un valore comunque elevato se confrontato con altri Paesi, nel 2015 era già aumentata al 31% per giungere nel 2019 al 36% e poi mantenersi tra 2020 e 2022 al 38% (un dato se vogliamo positivo è che, almeno, questa crescita del peso dello “scarto” distributivo del sistema dei quotidiani si sia fermato).Resta il fatto che la velocità con la quale sono diminuite le copie rese è stata, in questi anni, inferiore alla diminuzione di copie vendute nel canale edicola, con un sistema distributivo che sembra sul punto di implodere, incapace di risolvere problemi strutturali che si trascina da anni a cominciare da una sua vera modernizzazione che non permette una distribuzione “intelligente”.

Una reale informatizzazione della rete distributiva, una vera e capillare condivisione dei dati tra le diverse parti attive lungo tutto il percorso, aiuterebbe molto a rendere più efficiente tutto il sistema e a limitare gli sprechi. Un ulteriore aspetto, questo, che ci ricorda quanto sottolineato in precedenza, l’innovazione digitale e una nuova cultura dei dati non è limitata al solo giornale digitale ma al rendere efficiente tutto il sistema industriale.

Se guardiamo l’insieme delle singole testate vediamo come, a soffrire di più delle inefficienze distributive, siano quelle a distribuzione nazionale, una buona parte di loro ha infatti superato una resa del 50% sul totale della tiratura. Si nota infatti come nei quotidiani che hanno una distribuzione nazionale la quota di reso (e in particolare per quelli che non hanno un “baricentro” distributivo, ovvero un’area geografica che assorbe il 40-50% delle vendite) vale la regola che meno copie vengono vendute e distribuite e più i problemi della rete distributiva si ingigantiscono. Se guardiamo al quadro completo delle singole testate sia per quanto riguarda la loro “resa media in valori assoluti” e sia in “percentuale sulla tiratura” — facendo un confronto tra il 2013 e il 2022 — vediamo come, a fronte di una diminuzione della prima, corrisponda un aumento significativo della seconda. Questo viene evidenziato nei due grafici dove risulta come molte testate a diffusione nazionale vengano “spinte” verso valori vicini, superiori, e in diversi casi nettamente superiori, al 50% pur vedendo diminuire complessivamente il valore assoluto delle copie rese. Segno che diminuire in valori assoluti la resa non è sufficiente per diminuire la quota di sprechi se non si ripensa l’intero sistema di distribuzione. La dipendenza dei quotidiani italiani dalla carta in questi ultimi anni nei quali la pandemia ha accelerato ulteriormente il declino della vendita del cartaceo — le copie vendute nel canale edicola nel 2022 vede una flessione del 9% sul 2021 e del 30% sull’anno pre-pandemia, il 2019 — è un tema sempre più urgente da affrontare. Al di là del fascino e dell’interesse che genera sempre il dibattito del tipo “l’ultima copia di carta del New York Times” per la sua indubbia valenza simbolica, non è esattamente quello, nel prossimo futuro, il problema da risolvere (il quotidiano di carta e i suoi allegati settimanali possono sopravvivere e trovare un proprio ruolo ancora per anni) ma come i giornali stanno riuscendo a rendere efficiente tutto il processo produttivo — adattandolo davvero al nuovo ecosistema dei media — e questo a prescindere che poi si mandi il prodotto finito in stampa da distribuire “fisicamente”, oppure online o in un’applicazione per smartphone dedicata. Anche perché, intanto i lettori dei quotidiani invecchiano, il peso degli ultra 55enni dal 2015 al 2022 sul totale dei lettori dei quotidiani di carta nel giorno medio, secondo Audipress[9], è passato dal 40% al 49%, i lettori totali nel medesimo periodo di tempo però sono calati del 45% (da 18 milioni a 10 milioni) e la fascia di età che ha nettamente più influito in questo declino (il 42% dell’intera flessione) è stata quella “di mezzo” — tra i 25 e i 44 anni — che teoricamente dovrebbe essere quella a rappresentare il prossimo “zoccolo duro” tra i lettori del quotidiano di carta. Diventa una questione fondamentale quindi farsi trovare pronti al prossimo “cambio di guardia” con una generazione, verosimilmente, molto meno legata al quotidiano da edicola rispetto alle generazioni precedenti, perché cresciuta con lo smartphone perennemente a portata di mano (quella, per intendersi, che all’inizio degli anni dieci, aveva tra i 10 e i 29 anni).

NOTE

[1] AGCOM, delibera 262/22/CONS del 5 luglio 2022.
[2] Il progetto di fusione tra Audiweb e Audipress si è concretizzato, nasce Audicom, Comunicato stampa congiunto Audipress/Audiweb 13 marzo 2023.
[3] Da tenere presente in merito a questo confronto quanto già scritto nell’introduzione, i dati Audiweb e Audipress non sono perfettamente sovrapponibili per metodologia di raccolta e di platea di riferimento. Qui il confronto viene fatto per capire una tendenza generale in attesa, come richiesto dal Garante, di dati più omogenei.
[4] L. Simi, Native advertising, la pubblicità che sembra giornalismo, Pagina99, ottobre 2016(https://leliosimi.medium.com/native-advertising-la-pubblicit%C3%A0-che-sembra-giornalismo-e78d0c0369cc )
[5] Report “This Year, Next Year” aggiornamento dicembre 2022.
[6] In questo campione di editori il Gruppo 24 Ore è l’unico a possedere un’unica testata, per la sua rilevanza (il Sole è stabilmente da anni una delle testate “top 4” nelle vendite in Italia).
[7] Più precisamente questi come altri dati di questo report quando si parla di canale edicola sono riferiti alla voce ADS “Vendite individuali cartacee” nel quale il canale edicole è nettamente prevalente ma comprende anche altri punti vendita autorizzati e/o abilitati alla vendita di quotidiani, come la GDO”.
[8] “La carta costa sempre di più”, 8 aprile 2022, Il Post, link: https://bit.ly/3xHCPAK
[9] I dati di Audipress sono riferiti al terzo e ultimo aggiornamento annuale di dicembre.

Bibliografia del capitolo

 

 

Libri consigliati

 

  • Carlo Sorrentino, Sergio Splendore – Le vie del giornalismo – Il Mulino, 2022.
  • Sergio Splendore -Giornalismo ibrido. Come cambia la cultura giornalistica – Carocci, 2017
  • Jill Abramson – Mercanti di verità – Sellerio, 2022.
  • Ken Auletta – Frenemies. The epic disruption of advertising industry – HarperCollins, 2018.

 

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LELIO SIMI

Giornalista, ha iniziato nella carta stampata dove è diventato professionista, si occupa di informazione e Internet dal 2001 in uno dei primi network di portali online di informazione in Italia. Si occupa principalmente di innovazione, strategie e modelli di business editoriali raccontando, in particolare, la profonda trasformazione avvenuta nell’industria dei media in questi anni attraverso reportage e inchieste pubblicate— tra gli altri — da Il Manifesto, Pagina 99, Link, Eastwest, Altreconomia, L’Essenziale. È stato uno dei fondatori del gruppo di lavoro DataMediaHub, una delle prime esperienze di data-journalism in Italia, nella quale si è dedicato in particolare all’analisi  dei dati economici dell’industria italiana dei giornali. È uno degli autori dell’antologia “Datacrazia” (D Editore, 2018), nel 2021 ha pubblicato per Hoepli “#Mediastorm – Il nuovo ordine mondiale dei media”. #Mediastorm è anche la sua newsletter.

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